Notizie Radicali
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  lunedì 29 agosto 2005
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Antonio De Viti De Marco, uomo civile (2)

di Ernesto Rossi

Quando rifletto a quello che è stato per me De Viti De Marco devo concludere che, se la sua figura spicca col più forte rilievo nella mia mente non è tanto per la stima grande che ho di lui come economista; né perché dalle sue opere ho preso alcuni schemi concettuali che mi sono stati e mi sono molto utili per la migliore comprensione dei fenomeni finanziari. E’ perché il De Viti De Marco, fra gli uomini che ho conosciuti della generazione precedente alla mia, è uno dei pochissimi (fra i meridionali lo metto in compagnia solo di Giustino Fortunato e di Gaetano Salvemini) che abbia veramente impersonato quei valori che sono l’espressione suprema della nostra civiltà. Dico “nostra civiltà”, e non civiltà occidentale, perché tutti i popoli, anche quelli dell’oriente, possono divenire civili solo in quanto riconoscano in forma sempre più ampia e conformino in modo sempre più consapevole la loro vita a tali valori.


Questi valori non consistono certo nella bomba atomica e nel perfezionamento degli altri mezzi di distruzione; e neppure consistono nell’aumento dei beni e dell’attrezzatura produttiva, nella rapidità dei trasporti, nelle invenzioni meccaniche ed in altri materialistici aspetti del così detto progresso tecnico. Un popolo può progredire in tutto questo e diventare sempre più barbaro. Civiltà significa rafforzamento della coscienza morale, tolleranza verso tutte le eresie, ricerca disinteressata del vero, sforzo continuo per creare le condizioni che consentano una sempre più completa espressione della personalità umana.


Se, nonostante tutte le sue deficienze, le sue ingiustizie, i suoi orrori, noi non rinneghiamo la nostra civiltà, ma anzi ci sforziamo di difenderla e di potenziarla, è perché uomo civile è per noi un uomo come il De Viti De Marco.


Il pensiero politico di De Viti De Marco rientra nella grande corrente del pensiero liberale-democratico, che, scaturendo dall’illuminismo del ‘700, trovò nel secolo scorso i suoi maggiori teorici in Bentham e in Stuart Mill. La tradizione perde il suo fascino religioso; è rispettata come forza conservatrice solo in quanto determina i sentimenti e i bisogni dei viventi. L’unica guida per trovare la strada verso forme superiori di convivenza sociale è la ragione. Tutte le leggi e le istituzioni vengono continuamente sottoposte alla critica per accertare se rispondano effettivamente all’interesse collettivo, così come viene inteso dalla maggioranza, in rapporto al mutare continuo delle conoscenze, dei sentimenti e dei bisogni. Tutti i vantaggi che l’ordinamento giuridico assicura a individui e gruppi particolari, tutti i vincoli e le limitazioni alle libertà individuali vanno saggiati a questa pietra di paragone e devono essere eliminati se non trovano una sufficiente giustificazione nell’interesse collettivo. Fiducia solo nella persuasione per indurre gli uomini ad attuare quel che la ragione consiglia. Rifiuto di ogni mezzo coattivo per imporre la verità.


Questo atteggiamento lo ritroviamo in tutti gli scritti politici del De Viti De Marco: in quelli che riguardano particolarmente l’Italia meridionale; in quelli che considerano questioni di carattere nazionale ed in quelli che prendono in esame i maggiori problemi internazionali.


Sul pensiero scientifico del De Viti De Marco economista non parlerò affatto, perché non mi sembra questa l’occasione opportuna. Ricorderò, invece, il suo pensiero politico, cominciando dai suoi scritti e dai suoi discorsi sui problemi del Mezzogiorno.


Per il De Viti De Marco anche questi problemi sono essenzialmente problemi di giustizia sociale; non sono altro che particolari aspetti della lotta contro i privilegi, contro gli sperperi, contro le camorre.


Prima di tutto contro i privilegi che nascono dalla politica perfezionista.


Il De Viti De Marco fu uno dei primi e più decisi avversari della tariffa doganale del 1887.


Tutti gli ostacoli agli scambi con l’estero danneggiano in due modi gli agricoltori meridionali – egli spiegava fin dal 1890 – e perché la contrazione delle esportazioni li costringe a vendere le derrate agricole a prezzi più bassi, e perché la riduzione delle importazioni li obbliga a comprare i manufatti industriali a prezzi più alti.


Contro Luzzatti e altri politicanti che volevano dare a intendere che, in conseguenza delle tariffe doganali, gli agricoltori avrebbero avuto un compenso per le diminuite esportazioni con l’aumento degli scambi interni, il De Viti De Marco spiegava: “L’interesse industriale italiano e quello agricolo sono in antagonismo naturale e necessario; vi è tra essi il contrasto che si manifesta quando un ettolitro di vino si scambia con uno o con due metri di stoffa”.


Questo contrasto secondo il De Viti De Marco non poteva essere superato facendo appello alla solidarietà nazionale contro gli stranieri.


“Non esiste un interesse italiano comune ed omogeneo a tutti i produttori italiani, contro un interesse tedesco, o svizzero o austro-ungarico, similmente comune ed omogeneo a tutti i gruppi produttori in ciascuna di queste nazioni. Esistono invece, in ognuna di esse, interessi antagonistici, alcuni dei quali sono favoriti, altri offesi dalla rispettiva tariffa modanale. E però esiste in Italia un interesse agricolo e in Germania un interesse industriale che si danno la mano per concludere trattati nel reciproco interesse. Similmente esiste in Italia un interesse industriale e in Germania un interesse agricolo che si danno la mano per non concludere trattati”.


Il contrasto assumeva in Italia un carattere regionale solo per la circostanza accidentale che gli interessi industriali trovavano nel Nord la loro maggiore rappresentanza e quelli agricoli nel Sud. Ma gli agricoltori meridionali “difendendo il loro interesse di esportatori difendono l’interesse di tutte le industrie italiane esportatrici, cioè di tutte le forze vive e vitali dell’espansione commerciale italiana”.


La protezione doganale non può proteggere l’industria nazionale. Questo è uno dei punti sui quali il De Viti De Marco ha più insistito nella sua propaganda.


“Certo – egli spiegava – la singola industria nazionale che per mezzo del dazio è riuscita a scacciare il molesto concorrente è una delle industrie nazionali, ma non è, né rappresenta l’industria nazionale. Il ragionamento protezionista non va oltre il bilancio particolare di una industria alla volta; ma perde di vista le ripercussioni necessarie che gli extra profitti realizzati dagli industriali protetti esercitano sui bilanci di quelli che non sono protetti; costoro pur fanno parte dell’industria nazionale, ma sono chiamati a un’altra funzione economica: quella di pagare i prezzi artificialmente più alti, cioè di pagare sui loro ordinari guadagni di straordinari guadagni degli altri. Per i protezionisti il lavoro nazionale è rappresentato soltanto dalle industrie protette. Le altre, tra cui l’agricoltura, pare che non impieghino lavoro nazionale e però non meritino gli stessi riguardi”.


“D’altra parte – egli ammoniva rispondendo a coloro che l’accusavano di sollevare il Sud contro il Nord, quando sarebbe stata già necessaria la concordia fra tutti gli italiani - un naturale contrasto di interessi economici non si trasforma e degenera in conflitto politico, se non quando interviene un atto legislativo che alteri artificialmente e coattivamente i termini naturali dello scambio”.


“L’azione a cui invito i miei amici e concittadini non è regionalista, ma essenzialmente unitaria e patriottica – affermava nel 1903 – perché, con la difesa del diritto e la conseguente eliminazione di una ignobile legislazione di classe e di regione, si mira ad elevare il Mezzogiorno economico e sociale al livello dell’altra parte d’Italia. Fino a quando noi faremo durare la sperequazione tributaria e quella ancora più grave della legislazione doganale e della politica commerciale, noi non saremo un grande paese di 33 milioni d’abitanti, ma un piccolo stato, grande quanto il Belgio e l’Olanda, che sta a piè delle Alpi, e una popolosa colonia di sfruttamento, che si stende lungo l’Appennino al mare”.


I 33 milioni di abitanti sono diventati 46 milioni. Sono mutati completamente gli strumenti della politica protezionista. Ormai guardiamo con rimpianto ai bei tempi in cui, nonostante la protezione doganale, anche nel commercio internazionale funzionava il meccanismo del mercato per riadattare continuamente la produzione nazionale alla domanda: si potevano importare tutte le merci che si volevano al prezzo internazionale aumentato del dazio, che costituiva solo un ostacolo analogo a quello per le spese di trasporto; il mercato era più ristretto di quello che altrimenti sarebbe stato, ma, almeno nel suo interno, era ancora possibile raggiungere un equilibrio di concorrenza. Le tariffe doganali ormai non hanno più alcun significato in confronto ai controlli sui cambi, alle casse di compensazione, ai contingentamenti, alle assegnazioni, ai permessi di importazione, e a tutte le altre diavolerie, con le quali ogni particolare scambio con l’estero è ormai sottoposto all’arbitrio dei politicanti e dei burocrati. Il gioco è diventato molto più complesso e di difficile comprensione per i laici. A tutti i vecchi sofismi protezionistici si è aggiunto quello monetario, col quale i cosiddetti “esperti”, con un linguaggio sempre più ermetico, spiegano la necessità di un continuo intervento dello Stato per assicurare il pareggio nella bilancia dei pagamenti internazionali. Ma la sperequazione derivante dalla politica commerciale non è stata ridotta, anzi è stata enormemente aggravata, negli ultimi due decenni, sicché le parole del De Viti De Marco conservano tutto il loro valore.


“Nell’ora attuale – ripeto quello che egli diceva 45 anni fa – siamo alle mercè degli industriali che hanno il loro quartiere generale nello Stato libero di Sant’Ambrogio, e di là dirigono, capi irresponsabili, la politica commerciale italiana”.


(2. segue)